quinta-feira, 5 de novembro de 2015

Le zuppe



Le zuppe sono sostanze calde che nutrono, scendono giù per la gola e riempiono lo stomaco facendo dimenticare per un po’ la sensazione di vuoto. Le zuppe sono benedizioni a pezzettini fatti di patate, carote, grani, erbe, aromi, radici, funghi, proteine di ogni genere, acqua e fuoco, insomma, di cose che l’uomo ha impiegato millenni per riuscire a organizzare a suo favore. Le zuppe riuniscono in se tutto quello che il corpo, architettura biologica di intricata complessità, richiede per vivere: è la mente umana, abituata ad accettare, senza opporre alcuna resistenza, ragionamenti che non attribuiscono molta importanza alla vita, a fare in modo di classificare le zuppe come una banalità. Invece le zuppe sono così emblematiche che dovrebbero essere adorate come un monumento organico dedicato all’elevato livello di civiltà raggiunto dalla nostra specie, nonostante l’ingente quantità di scelte sbagliate e azioni deplorabili collezionate nel corso della storia. Zuppe servite in piatti puliti e allestiti in grandi tavoli intorno ai quali si accomodano persone sedute fianco a fianco e le une davanti alle altre potrebbero figurare come simboli nelle bandiere nazionali al posto di animali, astri, armi o stemmi o anche, nel caso di bandiere decorate con semplici strisce verticali e orizzontali, potrebbe esserci una didascalia applicata alla bandiera stessa, spiegando che tali strisce, in verità, sono rappresentazioni geometriche di questi tavoli lunghissimi con i loro piatti di zuppa che non sono mai stati negati ai cittadini. Visto che non ci sono bandiere o didascalie di questo genere, si può concludere che questa non è l’immagine più adatta alla creazione di un simbolo in grado di suscitare un sentimento di orgoglio nazionale. Non funziona. È troppo debole. Alla fine, quale esercito si riunirebbe intorno a una bandiera che si riferisce a un semplice principio di manutenzione della vita? La contraddizione sarebbe troppo evidente. È vero. Bandiere così farebbero raffreddare qualsiasi pretensione di gruppi belligeranti impegnati in affermare la superiorità della propria forza distruttiva. Cerimonie civiche, con loro colpi di cannone accompagnati da inni nazionali pomposi, perderebbero molto in termini di prestigio e solennità. Lo stesso succederebbe con i discorsi che esaltano l’importanza di azioni che conducono al versamento di litri e litri di sangue innocente – che inzuppano gradualmente colorando di rosso capelli, vestiti, scarpe, borse formando pozzanghere a terra – e dei loro artefici, riducendo notevolmente il fascino degli omaggi resi agli eroi anonimi che un giorno uccisero e morirono per un’immagine confusa ed effettivamente intangibile di collettività. In che modo un misero tavolo intorno al quale si riuniscono persone pacifiche per condividere un pasto può avere a che fare con l’idea di nazione? Qualche mente più raffinata di certo direbbe che è meglio non mischiare cose diverse mettendole nella stessa pentola. Ogni cosa deve rimanere nel posto giusto. Cibo ha a che fare con pancia. Pancia, zona addominale, parte inferiore e istinti. Uomo-animale. Uomo che divora e espelle escrementi. Ano, sesso, urina. Le guerre sono cose diverse. Non sono motivate da emozioni di base e istinti primari. Non sono generate per soddisfare impulsi bestiali. Nascono da ideali insediati in sfere più elevate dell’essere umano. Hanno origine in conflitti che sono essenziali per il processo evolutivo e portano al raggiungimento di un nuovo punto di equilibrio tra le forze che da sempre spingono l’umanità. Ovviamente, tutto quello che esercita un’azione in grado di modificare una situazione già stabilita genera effetti collaterali sgradevoli, ed è inutile prendere qualche iniziativa che si contrapponga all’inevitabilità di questo processo. Non è difficile trovare rispettabili cittadini che si sentono a disaggio di fronte all’azione di attivisti impegnati a difendere questioni umanitarie e ambientali, perché considerano una grande perdita di tempo insistere nella lotta contro l’ordine naturale delle cose. Pensano che sarebbe molto più producente se loro desistessero da questo atteggiamento donchisciottesco, imparassero a chiudere la bocca e si concentrassero in un’altra direzione. Dovrebbero mettere nel sacco i loro cartelli ingenui, inghiottire le loro innocue parole d’ordine e canalizzare i loro sorpassati impulsi rivoluzionari in direzione di attività di ricerca per trovare un modo efficace di rammendare quello che si può rammendare; dovrebbero specializzarsi in ricucire le cose nel modo più veloce possibile affinché tutto possa tornare alla normalità immediatamente dopo qualche ostilità risolta con misure più energiche. Dovrebbero smettere di criticare i governanti dicendo che le guerre succedono soltanto perché sono ritenute un metodo efficace per confermare l’egemonia dei potenti, permettendo che loro screditino tranquillamente qualsiasi sforzo razionale rivolto a cercare una via diversa. Rinomati studiosi del comportamento umano hanno addirittura affermato che le guerre sono meccanismi essenziali per la manutenzione della pace, perché è necessario usare la forza per neutralizzare gli impulsi predatori dei più violenti. Altri dicono che le guerre sono una specie di spurgo necessario, un processo depurativo della società verso l’ambito progresso, come se fosse una diarrea, che è sgradevole e puzzolente e tuttavia indispensabile per eliminare elementi impuri che sono stati ingeriti ma che non possono fare parte di un corpo sano. Ci sono critici più esasperati e in conflitto con il sistema che, pur mantenendo le proprie radici completamente sprofondate in esso, richiamano l’attenzione al fatto che il progresso porta con se alcuni aspetti nocivi, che tendono a mettere a rischio qualsiasi tipo di società: l’individualismo estremo, il consumismo sfrenato e l’immediatismo inconseguente. Dicono che il progresso, concepito in questo modo, si è trasformato in oggetto di una specie di credo fondamentalista che diffonde spudoratamente idee piene di fantasia riguardo a una possibile crescita economica infinita. Sono arrivati alla conclusione che l’idea di progresso non si può più inserire nell’idea di futuro, che questi due concetti sono ormai inversamente proporzionali. Ma questo non importa. Infatti la verità del momento è quella che riesce ad essere la più convincente. Per questo motivo esistono i maestri nell’arte dell’illusionismo contemporaneo. I manipolatori dell’informazione, quelli che mettono il proprio talento a servizio della creazione di eroi, della legittimazione di false verità, trasformandole in un nettare appetitoso che tanti bevono tutti i giorni. Ma, purtroppo, si consumano queste illusioni senza che ci sia alcuna catarsi. Esse servono soltanto per provocare reazioni riflesse, non purificano l’anima, non aiutano a liberarsi di sentimenti d’angoscia e ansia né provocano introspezioni scomode ma edificanti. Tutto deve essere frenetico, impattante, in grado di stimolare al massimo i sensi e mantenere la coscienza attaccata alla periferia delle sensazioni. È bello essere superficiali e consumare tutti il tempo, senza smettere di produrre. Produrre consumando per consumare producendo. Quasi senza accorgersene, tutti cercano di imparare i passi di questa danza che deve essere eseguita secondo la musica, perché è meglio sapere ballare correttamente, perché la musica suona tutto il tempo ed è una tortura percepirla soltanto come un rumore di fondo. Ma è impossibile non dimostrare stupore quando si fa tutto nel modo giusto e nonostante ciò sembra che qualcosa non vada. Ma allo stesso tempo è rassicurante sapere che gli errori sono le eccezioni che confermano la regola, che malgrado i problemi, le cose seguono il loro corso normale. L’unica cosa da fare è sintonizzarsi su tutto quello che è normale, perché è nella normalità che la maggior parte delle cose si fondano. La nostra cultura si diffonde e si mantiene attraverso onde di normalità. È normale sentirsi insoddisfatti. È normale sentirsi incompresi. È normale sentirsi non realizzati. È normale sentirsi traditi, usati, aggrediti, ignorati, scartati, invisibili. Tutto questo è normale in un modo schiacciante e, nonostante ciò, continua ad essere soltanto normale. È interessante osservare quanto è efficiente rifugiarsi nello pseudo-conforto di questo nido mentale e sentirsi orgogliosi di aver vissuto, o sopportato, una vita perfettamente normale, nonostante tutto. Non è difficile accettare che per mantenere una certa coesione sociale è necessario limitare il numero di persone che possono scegliere di volare e attraversare i confini della normalità. È divertente - e anche molto istruttivo - verificare che grande parte delle persone che decidono di farlo, pur non avendo ali collaudate e classificate come bene sviluppate, si schiantano a terra dimostrando di essere soltanto cretini, pretensiosi o matti. D’altronde, è molto interessante poter osservare alcuni pochi individui che possiedono ali stupende e possono uscire e poi tornare liberamente, portando eventualmente con se notizie dei loro voli vertiginosi. Però, è soltanto per imposizione che si accetta l’esistenza di quelli che nascono praticamente senza ali, ma che riescono a comprare ali fabbricate e, nonostante ciò, sorvolano tutto il tempo il nido, dato che non hanno mai avuto l’intenzione di volare veramente. Il problema è che queste ali hanno un costo altissimo. La grande maggioranza di quelli che vivono nel nido devono per forza spendere il loro tempo a strapparsi le penne dalle loro ali avvizzite per fabbricare quelle che saranno le ali dei potenti. Versano quello che hanno di più prezioso in grandi cestelli, raccogliendo le penne di tutti quelli che hanno smesso di voler volare. Per continuare a strapparsi le penne giorno dopo giorno, senza mai fermarsi, bisogna avere assoluta fiducia nel sistema, nel conforto dei limiti del nido, nella eccezionalità di quelli che non sono rimasti prigionieri, nella legittimità di quelli che consumano le penne altrui. Affinché le cose possano funzionare in questo modo è necessario affermare ogni giorno che tutto deve continuare a funzionare normalmente. È necessario ricordare che fino a questo momento non è stato possibile concepire niente di meglio. Tutte le utopie sono state buttate nella spazzatura, non ne è rimasto più niente. Tutti gli “ismi” si sono fusi in un unico materiale viscido che si è sparso dappertutto, come un liquame pestilente che infetta tutto quello che riesce a toccare e appanna la visione, facendo sembrare la vita molto più piccola di quello che è veramente. Per riuscire a sentirsi bene in questo contesto, è necessario non riflettere al riguardo. Bisogna far finta che questo non esista. È necessario isolarsi da tutti quelli che dimostrano esplicitamente di essere stati colpiti, di essere sporchi, contaminati. È necessario chiudere le porte, rafforzare i confini, erigere alte mura, elettrificare le recinzioni, chiudere le finestre con pannelli di legno, sigillare le crepe delle pareti, dipingere tutto di bianco, sterilizzare, disinfettare, respingere. È necessario coltivare un’illusione con molta diligenza affinché sembri reale. Essa smette di essere credibile quando diventa impossibile impedire che persone disperate bussino continuamente alla porta esponendo le loro ferite, la loro miseria, camminando liberamente da un posto ad un altro. Questi che purtroppo non sono riusciti a mantenersi al di sopra della superficie e si sono lasciati sporcare con il fango residuale del progresso dovrebbero avere almeno la dignità di lasciarsi affondare completamente e sparire. Quelli che si impegnano per mantenersi a galla non vogliono assistere a questo genere di spettacolo. Pagano un alto prezzo per avere il diritto di dimenticare. Sono certi che non sono per niente responsabili di queste cose. Osservano rigorosamente tutte le regole, pagano puntualmente tutti i propri debiti, ma se questo tipo di oltraggio comincia ad essere troppo insistente, sono capaci di pagare ancora di più per procurarsi protezione, per armare un esercito. Sono capaci di mandare i loro figli a morire in questo esercito perché hanno già speso troppo. Una certezza c’è: l’indigenza degrada le persone in modo irreversibile, trasformandole in predatori pericolosi, animali che debbono essere catturati e ammazzati, eliminati, perché sono stati marchiati come bestie e questo marchio non potrà mai essere cancellato. Per loro non ci sono speranze di integrazione nel mondo civile. Debbono morire o restare imprigionati all’interno delle gabbie per impedire che distruggano o rubino tutto quello che trovano per strada. Anche se l’unica cosa che riusciranno a strappare a quelli che guardano il loro passaggio sarà una leggerissima sensazione di benessere venerata ossessivamente come l’unica ancora della loro fragile identità. I disgraziati debbono essere condannati senza alcun diritto di difendersi. Si sono lasciati cadere nel limbo della disgrazia e non possono più uscirne. Nessuno è responsabile. Nessuno può essere accusato di essere fautore di questo massacro. È il destino. Questi disgraziati sono soltanto residui. Inevitabili residui. Non interessa a nessuno se saranno sterminati in massa con l’utilizzo di armi potenti o se moriranno in solitudine, lentamente, con le pareti dei propri visceri incollate le une alle altre. Quelli che soffrono la fame meritano di morire perché ciò significa che sono incapaci di sopravvivere. Questo è valido anche per i loro bambini, perché sono figli di incapaci e portano questo difetto nel loro DNA. Sono piccole bombe vaganti che, se non saranno disarmate in tempo, metteranno a rischio il futuro dei bambini buoni che provengono dalle buone famiglie, che sono bene educati e osservanti dei buoni principi, che assistono a tutto ciò con gli occhi ben aperti e imparano dai loro genitori che il mondo funziona così e che non bisogna sentirsi responsabile. Imparano che le strisce che appaiono nella bandiera del loro paese non rappresentano e non hanno mai rappresentato lunghi tavoli, immensi tavoli intorno ai quali le persone si siedono fianco a fianco e le une davanti alle altre per condividere un pasto. A questo punto è quasi impossibile non domandarsi: quando i nostri figli imparano ad affrontare la vita con tale conformismo e indifferenza, in verità, non si staranno preparando per essere i miserabili di domani?






Mariângela S. Ragassi

Revisione: Livia Erika Nocera 





Assisi, settembre 2015

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